Vivere al tempo del Coronavirus



Il primo post del cambiamento avrei voluto scriverlo qualche settimana fa, alla fine di un servizio di quelli maggiormente interessanti e, generalmente, movimentati, vale a dire alla fine del servizio allo stadio.

Invece sono a scrivere in una situazione veramente surreale, che fino a qualche giorno fa pensavamo fosse impensabile, che avremmo visto solo in televisione, anche con un certo distacco data la lontananza.

Invece ai tempi della seconda fase della globalizzazione, quella nella quale i movimenti sono veramente maggiori di quelli che ci immaginiamo, è arrivato anche qui.

Una mattina ci siamo svegliati e abbiamo saputo che a circa 20 km da noi c'era un focolaio importante.

L'inizio è stato preso come al solito, con un po' di curiosità e di scaramanzia, ci dicevamo "E' arrivato anche qui", con un po' di preoccupazione sentendolo comunque sempre un po' lontano.

A poco a poco però si è avvicinato e hanno cominciato a chiudere le scuole, poi tutti i centri di aggregazione fino ad arrivare ai centri commerciali e alle strutture di vendita non alimentari.

Andare al lavoro è sempre un po' come fare un salto nel buio, lì la situazione è un po' più critica che da altre parti, la zona rossa è veramente vicina e lo scambio di persone è molto alto con i paesi ricompresi nella lista.

Si va sempre, con il pensiero di chi sta a casa, più che altro con la speranza di non portargli a casa nulla.

Tutti abbiamo paura, c'è chi la manifesta di più e chi meno però lo si intuisce, non c'è chissà quale spirito e spesso si abbassa la testa e si allargano le braccia.

Capita poi di ricevere informazioni dalla vera zona di guerra, vale a dire dall'ospedale, che è più definibile come "il fronte", e allora la preoccupazione sale ancora di più.

Poi ti trovi a dover convincere le sale slot al fatto che devono chiudere perchè la loro attività non è indispensabile alla società. 

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